Archivi del mese: settembre 2016

W.G. SEBALD, SCRITTORE

…tutta la vera letteratura è difficile, perché trasforma punti di vista, cambia lo sguardo, l’udito, i pensieri, le sensazioni degli esseri umani. Nato nel 1944, Sebald è stato il maggiore tra gli scrittori della sua generazione: nel mondo, non solo in Germania. Nessuno possedeva la sua passione, intelligenza, cultura, densità stilistica, tragedia. Nessuno aveva il suo dono fondamentale: trasformare la vocazione metafisica in scienza naturale e la scienza naturale in vocazione metafisica. Non assomigliava a nessuno scrittore vivente: non aveva compagni né affini; i suoi antenati – i romantici tedeschi ed inglesi – erano vissuti due secoli prima.

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Non c’è movimento, perché tutto sta per sgretolarsi, frantumarsi, precipitare in un rudere o in una rovina. «Un battito di ciglia, mi capita spesso di pensare, e di un’intera epoca, non c’è più traccia», dice Sebald. «Adesso non c’è più nulla, non c’è più nessuno», ripete desolatamente. Dappertutto non c’è che morte; e la morte non si trasforma mai, come nel messaggio greco e cristiano, in rinascita e resurrezione. «In verità, in verità vi dico – aveva annunciato Gesù Cristo a Giovanni -: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, porta molto frutto». Mentre in Sebald gli innumerevoli chicchi di grano caduti in terra – tutto il suolo è disseminato di chicchi di grano – rimangono soli, disperatamente soli, e non danno mai frutto, ma diventano sterili. Quindi è impossibile qualsiasi memoria, per quanto impercettibile. «In realtà – dice Sebald – non ricordiamo nulla. Troppi edifici sono crollati, troppe macerie si sono accumulate, insormontabili sono i sedimenti e le morene».

La storia appare in decine di episodi conosciuti, o sconosciuti o bizzarri, rievocati con grande passione. Ma il significato di questi episodi è sempre lo stesso: tutto ciò che è storico si spegne e si perde. Le province della Cina, nell’Ottocento, facevano pensare a prigioni circondate da pareti di vetro, dove i cinesi morivano per inedia e sfinimento. Nelle persone si riscontrava un progressivo rallentamento di tutti i movimenti, che di settimana in settimana andava facendosi sempre più netto. Quegli esseri vagavano per la campagna: non di rado bastava un lieve soffio di vento per rovesciarli a terra, lasciandoli distesi per sempre sul ciglio della strada. Nel semplice levarsi della mano, abbassarsi di una palpebra e nell’esalazione dell’ultimo respiro, «pareva a volte che trascorresse un secolo». Nel Medioevo europeo, Durwich, una città dell’Inghilterra meridionale, aveva cinquanta chiese, conventi e cantieri navali, una flotta da pesca e una flotta commerciale con ottanta imbarcazioni. Oggi le chiese sono crollate, i muri sono macerie, le travi sono spezzate, gli scafi sono squassati, le vele sfilacciate. Tutto si è inabissato, e giace al largo, in fondo al mare, coperto di sabbia e di detriti.

La natura è come la storia. L’ultima luce del giorno comincia a calare, e i contorni delle cose scompaiono nella penombra grigio-bruna. La linea dell’orizzonte si serra piano «come in un nodo scorsoio». Quando scende la notte, interi boschi si curvano sotto raffiche violentissime, come le spighe in un campo di grano. Non si vede più nulla: solo le stelle, sfolgoranti come sulle Alpi. Gli uccelli tacciono. Là dove al calar della sera si udiva gorgogliare un usignolo nella boscaglia, adesso non si percepisce alcun suono, alcun segno di vita. Poi, si scatena di nuovo la furia del vento: muoiono le querce, muoiono i faggi, muoiono i frassini, muoiono gli olmi ammalati; finché, qualche giorno dopo, quattordici milioni di alberi giacciono a terra, in una catastrofe naturale più terribile di qualsiasi catastrofe umana. Quando la tempesta si placa, affiorano a poco a poco dall’oscurità ondulati cumuli di sabbia, sotto i quali stanno i rami spezzati degli alberi. «Senza fiato, con la bocca e la gola riarsi», scrive Sebald, «sgusciai fuori dalla buca, che si era formata attorno a me, con la sensazione di essere l’ultimo sopravvissuto di una carovana inghiottita dal deserto».

Qualche volta, la nascita e la vita, persino esuberante, si identificano con la morte. Nel caso della falena del baco da seta, il maschio muore poco dopo l’accoppiamento. La femmina depone, per parecchi giorni di fila, dalle trecento alle cinquecento uova. Poi anche lei muore. Sulle rive del Mare del Nord, immensi banchi di aringhe sono spinti dal vento e dalle onde verso la costa, e poi gettati sulla terraferma, dove ricoprono la spiaggia, per la lunghezza di alcune miglia, con uno strato più spesso di un metro. Le aringhe muoiono e marciscono, offrendo «la raccapricciante immagine di una natura soffocata dalla propria sovrabbondanza».

Noi lettori vediamo il mondo ricoperto da miliardi di esseri umani, che si riproducono e moltiplicano follemente. Abbiamo l’angoscia del troppo pieno. Mentre passeggia avanti e indietro lungo le coste dell’Inghilterra, Sebald non scorge niente, o quasi niente: ad ogni passo il vuoto, dentro di lui e intorno a lui, si fa più vasto e il silenzio più profondo. «Non c’è che solitudine», egli dice. «Non si vede anima viva»: «Non ho mai incontrato anima viva», ripete ancora più ansiosamente, diviso tra l’estasi del vuoto e un terrore quasi mortale. A volte, ha l’impressione di scorgere una di quelle antiche carte geografiche dell’estremo Nord, sulle quali non era disegnato quasi nulla, salvo scritte ed animali fantastici. Siamo incerti se, in quella parte dell’Inghilterra, non sia mai nato nessuno: o se un’immensa catastrofe abbia trascinato e spazzato via ogni residuo della sventurata civiltà umana.

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In questo paesaggio di morte e di solitudine, splendono rarissimi momenti. La nebbia si dissolve, la volta del cielo è azzurra e tenue, non un alito si muove nell’aria, gli alberi di latifoglie sembrano dipinti, neppure un uccello si muove sopra il velluto bruno del mare. Il mondo sembra scivolato sotto una campana di vetro, nella quale si raccolgono apparizioni minime e intensissime, come le piume verdi di un’anatra. In quei momenti appare la Gerusalemme celeste: «la sposa ardentemente attesa», «il rifugio di Dio». Sebald spera che, un giorno, «le lacrime vengano asciugate dagli occhi, e non ci sarà più afflizione, né sofferenza, né lamento».


FIORENZA

…e ecco, alla fine, anche, dice, si sente, ripetono, siino morti anche il Bigozzi, il Tani, il Carrozzi, il Nistri, il Falaschi, il Gensini, il Tanganelli, il Fanfani, lasciassimo, dice, si sente, che i morti seppellissino i loro morti, e di seguito, se ne resta qualcheduno, tra le strade semivote, via Pastrengo, via Frusa, via Mannelli, che nessuno se lo pole nemmeno immaginare l’inferno di via Mannelli, freddo freddo, o caldo caldo, o la vampa abbagliante del sole, o il vento gelido dalla parte più buia, più oscura, più umida, le finestre sempre chiuse, le persiane calcinate, fattesi muro delle case dei morti o dei moribondi, dei senza più vita, il Fossi, il Fiaschi, il Meconi, lo Sbrana, il Respighi, omi fatti cadaveri seduti nelle cucine, senza in casa nessuno, solo, ancora, forse, nafantare, si sente, il rumore dei frigoriferi, che nessuno più spenge, che continuano soli a girare, la ventola, i tubi, incrostati di merda, della merda che si lasciano gli omini dietro, dove che sia, rubinetti gocciolanti, lavandini, sciacquoni,eccetra, ex-pennelli da barba, saponi usati, altri saponi, piatti sudici,fetidi, cani lasciati chiusi in cantina, per sempre. Fori, intanto, dove prima passava l’autobus, non si move più nulla, solo i treni, qualcheduno, dietro il lungo muro piscioso, che fischiano, e nessuno la conosce la ragione, perché lo fanno.